martedì 24 marzo 2015

Il MacS di Catania presenta la ‘Collezione MacS. Sezione Internazionale’


Il MacS di Catania presenta

la ‘Collezione MacS. Sezione Internazionale’

Vernissage domenica 29 marzo 2015

 

 

Protagoniste le opere (dipinti, sculture e fotografie) degli artisti: James Xavier Barbour, Lita Cabellut, Marcia Gálvez Camus, Marta Czok, Thomas Dodd, Enrique Donoso, Lorenzo Manuel Durán, Jorge Egea, Daria Endresen, Fernando Fraga, Steven Kenny, Wenceslao Jiménez Molina, Zheng Lai Ming, Ryan Mendoza, Nihil, Judith Peck, José Manuel Martínez Pérez, Mario Andres Robinson, Carlos Asensio Sanagustín, Richard Scott, Miguel Escobar Uribe, Santiago Ydanez, Gary Weismann.

 

 

Domenica 29 marzo 2015, alle ore 19, al MacS (Museo Arte Contemporanea Sicilia) nella Badia piccola del  Monastero di San Benedetto di via Crociferi, a Catania, si terrà, il vernissage della Collezione MacS. Sezione internazionale’.  Interverranno: il Direttore del MacS, Giuseppina Napoli, il prof. Adriano Pricoco (Accademia di Belle Arti Catania).

 

 

Adriano Pricoco (Accademia di Belle Arti Catania) - “L'avvento del digitale, ha sancito la fine della verità a favore del realismo. Nella fase storica in cui ogni processo creativo viene medializzato per esistere, sembra non esserci più posto per le forme di rappresentazione che hanno accompagnato lo sviluppo artistico delle civiltà umane. Tutto sembra essersi trasformato, quanto meno nelle dinamiche di percezione che ne abbiamo. Se dovendo immaginare un percorso evolutivo dell'arte bisogna risalire al primo uomo che lascia (imprime) una impronta della sua mano all'interno di una caverna, la prima vera rivoluzione in termini artistici avviene nella naturale evoluzione del segno che comincia a divenire rappresentazione, evocando (o invocando) le prime sublimazioni spirituali. La successiva e già quasi definitiva rivoluzione interviene e coincide con la conquista della terza dimensione e la relativa acquisizione conseguente dello spazio, che da scultura non tarderà ad evolversi ulteriormente in architettura. Oggi viviamo nell'egemonia delle immagini; del resto se la differenza sostanziale fra logos e imago sta nella natura regionalistica della prima: se dico (o scrivo ndr) sedia, condivido il senso associativo soltanto con chi usa il medesimo idioma; la sua natura appunto idiomatica è anche il suo limite. L'immagine di una sedia, al contrario è condivisa universalmente in qualsiasi angolo del pianeta e quasi in qualsiasi epoca. Uno degli effetti dell'avvento del digitale, è stato quello di restituire nuova dignità a forme di rappresentazione che nell'arco del XX secolo sembrava quasi fossero state progressivamente abbandonate; non per decadenza oggettiva, bensì per la progressiva smaterializzazione che è derivativa dalla definizione intervenuta nell'arte dopo l'esperienza delle Avanguardie del dopoguerra. Forse già con la nascita della fotografia nel XIX secolo si erano registrate le prime forme di indebolimento della pittura, la preminenza di quest'ultima sul ritratto, che ne ha connotato anche la storia, viene messa in discussione dalla fotografia. Persino l'invenzione del cinematografo e la sua evoluzione in immagini continue ha determinato un conflitto apparente con la tradizione della pittura. Come affermò Wim Wenders in un'intervista nel 1975 “...il cinema è cominciato come una faccenda puramente fenomenologica. Chi ha inventato le prime macchine da presa, quando riprendeva le cose, era interessato solo alla loro rappresentazione. Tutte le altre idee del cinema si sono sviluppate in seguito. Al principio non c'era altro che la pura e semplice rappresentazione della realtà...” ed è proprio questo il limite che ha denotato la fotografia e successivamente il cinema: l'impossibilità di tenere il passo con la natura immaginifica della pittura. È altrettanto vero che lo sviluppo delle tecnologie legate all'immagine nell'arco del Novecento, aveva minato la credibilità della pittura; già Walter Benjamin aveva teorizzato che la riproducibilità tecnologica avrebbe segnato una rivoluzione nell'arte; il cinema stesso nella sua progressiva definizione aveva sancito una democratizzazione delle arti, creando relazioni fra discipline fin lì spesso divise a compartimenti stagni, ma è apparso altrettanto palese che nella sua evoluzione avrebbe restituito nuova dignità all'idea di rappresentazione figurativa. La figurazione appunto, che sembrava esser stata resa obsoleta dall'astrattismo nell'arco nel XX secolo, è stato costante oggetto di riscoperta e rivalutazione. Paradossalmente è stato proprio lo sviluppo delle tecnologie digitali di rappresentazione ad aver dato nuova linfa vitale alla figurazione. Il confine fra fotografia e pittura nell'epoca di software quali Photoshop si è talmente assottigliato da essere quasi impercettibile. E la pittura? Cosa ne è stato della pittura, del suo esercizio procedurale e metodologico? Si sono forse estinti? Naturalmente no. Convivono come forma sinergica alla mappatura del mondo che le immagini di natura digitale aspirano ineluttabilmente a compiere senza però riuscire ancora nell'intento. In una società dominata dall'immagine, l'arte richiede sempre più un'aura a protezione del suo carattere fragile. Abbiamo assistito ad una radicale trasformazione dell'atteggiamento fruitivo dell'opera: se alla fine dell'Ottocento le forme di rappresentazione artistica si avvalevano di codici multipli che consentivano una chiave di lettura del fruitore attraverso le dinamiche di racconto, di istanze basate su regole proporzionali, di valori cromatici e modelli tratti dalla natura, con le Avanguardie si è formulato un approccio costruito su codici singoli e specialistici. L'effetto è stato una ripartizione per categorie di fruitori. Ed è stato proprio il cinema a raccogliere l'eredità dei codici multipli divenendo la forma artistica di rappresentazione più popolare. Ma il cinema non è sufficiente a compensare la perdita di aura intervenuta nell'opera d'arte nell'arco del Novecento.  La figurazione non è mai stata appannaggio di una unica disciplina espressiva, anzi ha avuto la capacità di rinnovarsi adeguando le proprie istanze all'evoluzione dei mezzi espressivi, generando nuove dinamiche e significati. Le immagini nella loro accezione generica che hanno assunto ed a cui ascriviamo tutto lo scibile contemporaneo hanno depauperato il significato a favore del significante. L'origine di questo depauperamento di senso va cercato nel cortocircuito che la diffusione massiva che le immagini hanno nel nostro contemporaneo, la ridondanza delle (e nelle) immagini è solo uno degli effetti collaterali con cui dobbiamo fare i conti. L'intento di affrancarsi dalla tradizione si è rivelato demagogico in tutti gli ambiti disciplinari dell'arte. Se il contemporaneo si offre a noi come un confuso disorientamento esistenziale è anche per via della retorica che abbiamo edificato intorno alle immagini. Forse anche a questo servono le collezioni pubbliche di Arte; riedificare il senso più nobile di Cultura come reale prospettiva di crescita ed emancipazione. La collezione che il MacS presenta è da ritenersi un patrimonio a lungo termine per un territorio che vanta una esemplare vitalità artistica. È inoltre una risorsa culturale volta a crescere progressivamente nel tempo. Il consumo culturale in una città come Catania è destinato a crescere esponenzialmente”.

 

Giuseppina Napoli (Direttore MacS) - “Stiamo vivendo indubbiamente un momento storico particolarmente difficile e drammatico. Assistiamo proprio in questi giorni a terribili aggressioni alla cultura e alla civiltà, immagini orrende di morte, distruzioni di opere d'arte e di reperti storici si susseguono sui media. Guerre ideologiche e sanguinarie minacciano l'Europa, il Medio Oriente brucia. Il mondo intero arranca stremato da una lunga crisi globale. Inaugurare l'inizio della costruzione della collezione MacS, dedicandone la prima sezione all'arte contemporanea internazionale, è il nostro piccolo contributo alla pace e alla solidarietà mondiale. Il visitatore comprenderà che questo primo segmento museale è parte di un più vasto progetto culturale, progetto che propone il continuo dialogo, tra presente e passato, tra la Sicilia e il mondo. Questo segmento della sezione internazionale è il primo sguardo sui fermenti dell'arte figurata del nostro tempo e nel mondo. Da Santiago del Cile a Berlino, da Barcellona a New York. Visioni, denunce, poesie, speranze, paure. Artisti affermati, giovanissimi emergenti. Una grande estensione geografica di artisti e di scuole. Si avverte ovviamente il limite di una collezione che è stata costruita in poco meno di un anno. La rappresentatività degli artisti e dei movimenti è quindi ragionevolmente parziale, così come pure il limite degli spazi museali che presto andranno ad ampliarsi. Difficoltà e limiti che non fanno che sottolineare il grande impegno e la forte volontà del museo MacS di partecipare e contribuire alla promozione dell’arte del nostro tempo. Un ringraziamento davvero speciale agli artisti che hanno reso possibile, in così breve tempo, la realizzazione di questa straordinaria sezione internazionale; il loro contribuito al progetto è stato determinante, con le loro opere hanno voluto onorare questo luogo di indicibile bellezza. Agli artisti, ad ognuno di loro, la nostra sincera gratitudine”.

 

 

Collezione MacS.

Sezione Internazionale

Macs – Museo Arte Contemporanea Sicilia

via Crociferi – via S. Francesco n. 30, Catania

Autori: James Xavier Barbour, Lita Cabellut, Marcia Gálvez Camus, Marta Czok, Thomas Dodd, Enrique Donoso, Lorenzo Manuel Durán, Jorge Egea, Daria Endresen, Fernando Fraga, Steven Kenny, Wenceslao Jiménez Molina, Zheng Lai Ming, Ryan Mendoza, Nihil, Judith Peck, José Manuel Martínez Pérez, Mario Andres Robinson, Carlos Asensio Sanagustín, Richard Scott, Miguel Escobar Uribe, Santiago Ydanez, Gary Weismann.

 

Sede: MacS – Museo Arte Contemporanea Sicilia

Indirizzo: via Crociferi – via S. Francesco n. 30, Catania

Telefono: 095 715 2207 - 342 301 7376

Orari: invernale (in vigore dal 1° Ottobre) h 9.00 – 18.00; estivo (in vigore dal 1° Aprile) h 10.00 – 19.00 (Chiuso il Giovedì).

Ingresso: € 5,00 (biglietto unico) – € 3,50 (biglietto ridotto)

Ufficio Stampa:  ufficiostampa@museomacs.it

www.museomacs.it - info@museomacs.it

D come Donna promosso dal Teatro Stabile di Catania

D come Donna: prosegue “L'alfabeto della memoria”, il ciclo di incontri promosso dal Teatro Stabile di Catania
 
La scrittrice Tea Ranno approfondirà il tema della condizione
  femminile insieme alla giornalista Rosa Maria Di Natale

 

CATANIA – Dalla A alla Z, ma non necessariamente in quest’ordine. Dopo A come Amicizia con Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina, G come Giornalismo con Ferruccio De Bortoli e Nino Milazzo, è ora la volta della lettera D: per parlare della donna, anzi di tutte le donne, delle loro conquiste mai facili, spesso eroiche, sempre sorprendenti. Prosegue così “L’alfabeto della memoria”, il ciclo di incontri ideato proprio dal giornalista Nino Milazzo, presidente del Teatro Stabile di Catania, che organizza e ospita la stimolante iniziativa.

D come Donna, dunque. A riflettere e far riflettere sulla condizione femminile sarà la scrittrice Tea Ranno, che converserà con la giornalista Rosa Maria Di Natale. L’appuntamento è per lunedì 23 marzo alle ore 18: sul palcoscenico del Teatro Musco, la storica sala di via Umberto, saliranno due donne siciliane, pluripremiate nei rispettivi campi professionali, innamorate della cultura e della sua funzione civica e sociale. Partiranno dal loro mondo fatto di letteratura e scrittura per approdare ai sentimenti e ai diritti delle donne. Una storia di lotte, scritta con orgoglio e con gioia, ma anche col sangue, versato ingiustamente a causa delle prevaricazioni che penalizzano il sesso “debole” e dei troppi pregiudizi, ancora duri a morire. Ciò nonostante, le donne vanno avanti, puntando sulla loro innata libertà, sulla loro necessità di rompere gli schemi, pronte a reagire alle discriminazioni fino alle violenze subite, fino ai femminicidi, alla ricerca delle possibili risposte, civiche e culturali, a questa violenza che appare inarrestabile.

Durante l'incontro saranno letti alcuni brani tratti dall'ultimo libro della Ranno "Viola Foscari". Nata a Melilli, in provincia di Siracusa, nel 1963, Tea Ranno vive e opera a Roma da oltre vent’anni. Laureata in Giurisprudenza, ha sempre affiancato allo studio del diritto la pratica della scrittura. L’universo femminile è al centro anche dei suoi quattro romanzi: “Cenere” del 2006 e “In una lingua che non so più dire” del 2007 per i tipi E/O. Dopo una lunga pausa sono arrivati La sposa vermiglia (2012) e appunto Viola Fòscari (2014), pubblicati da Mondadori.

La giornalista catanese Rosa Maria Di Natale ha vinto il premio televisivo internazionale Ilaria Alpi nel 2007 con una delle sue videoinchieste autoprodotte. È stata docente di Giornalismo e nuovi media alla facoltà di Lingue dell'Università di Catania, oggi dipartimento di Scienze umanistiche.

Dal libro alla scena: L’indecenza, il “tropical-gothic” di Elvira Seminara

 
 
CATANIA – «Cento giorni. Dove si sgretola tutto, i protagonisti, la casa, le relazioni, la natura. Una lenta e oscura cremazione». Così Elvira Seminara sintetizzava nel 2008 l’atmosfera e il senso del suo pluripremiato romanzo d’esordio, L’indecenza, tutto giocato sull’ambiguità e ambivalenza.


Dal libro alla scena: dopo aver raccolto lettori e consensi in ambito internazionale, questo avvincente noir “siciliano” approda sul palcoscenico nella nuova produzione realizzata dal Teatro Stabile di Catania. «L’operazione - sottolinea il direttore del TSC Giuseppe Dipasquale - perpetua il coerente fil rouge che percorre e unisce gli importanti adattamenti che lo Stabile etneo ha tratto dalla narrativa siciliana. Non solo i capisaldi del verismo o del Novecento, ma spesso novità letterarie: una linea direttrice che ha coinvolto penne eccellenti, da Leonardo Sciascia a Pippo Fava, da Andrea Camilleri a Simonetta Agnello Hornby a Gaetano Savatteri, da Dacia Maraini ad Elvira Seminara, per non citare che alcuni autori».

 

Tra i nomi più autorevoli, a partire dalla fine degli anni Novanta, spicca appunto il nome di Elvira Seminara, scrittrice catanese e giornalista di costume, pronta a doppiare l’esperienza della scorsa stagione che ha visto il successo della trasposizione scenica di un altro suo romanzo, Scusate la polvere, sempre ad opera dello Stabile. È ora la volta dell’opera prima L'indecenza, pubblicata nel 2008 da Mondadori e oggi riproposta per l’occasione dalla casa editrice digitale “Libreria degli Scrittori”.

 

L’adattamento è stato affidato a Rosario Castelli, docente di Letteratura italiana nell’Università di Catania, con il contributo della stessa Seminara. La produzione teatrale - una novità assoluta e particolarmente attesa - sarà in scena dal 20 marzo al 2 aprile nei locali della Scuola d’Arte drammatica dello Stabile, intitolata ad “Umberto Spadaro”, per dare agio alla peculiare visione registica di Giampiero Borgia. Da sempre attratto dalla nuova drammaturgia, Borgia ha già allestito per il TSC Scusate la polvere, ma anche Come spiegare la storia del Comunismo ai malati di mente di Visniec, Non muore nessuno di Perroni, Ifigenia di Eliade, accanto alla lettura innovativa di un classico come Cavalleria rusticana. Scene e costumi sono di Giuseppe Avallone, le musiche originali di Papaceccio MMC e Francesco Santalucia, le luci di Franco Buzzanca.

 

Sulla scena agisce un trio di attori. Non ha bisogno di presentazioni David Coco (il marito), artista etneo da anni beniamino della platea teatrale, televisiva e cinematografica nazionale. Catanese anche Valeria Contadino (la moglie), reduce dai successi riportati in tournée nei maggiori teatri della penisola con Se’ nùmmari di Rizzo (altra produzione TSC) e L’importanza di chiamarsi Ernesto di Wilde. Pugliese è infine Elena Cotugno (Ludmila), allieva di Vasiliev ed interprete principale di numerosi spettacoli firmati da Borgia.  


 

Prende così voce e corpo il triangolo imperfetto su cui è costruita L’indecenza: un uomo, una donna, una colf ucraina. Poi una casa e un giardino lussureggiante e feroce. Nasce così, dal legame ambiguo e trascinante di questi cinque "personaggi" - tre umani, una casa e un giardino - lo sviluppo del racconto originale e visionario di Elvira Seminara, un "tropical-gothic", come qualcuno ha scritto. Una casa che diventa una trappola, piena di ombre e di insidie; una natura cannibalesca e sensuale; una coppia ferita da un trauma irrisolto; una ragazza candida e crudele, e uno spazio che muta, si sgretola e marcisce, trascinando un mondo - forse l'Occidente - alla deriva.

 

Ludmila, la straniera, è l'Altro, è l'estraneo nell'intimità, è il perturbante. Ma è anche l'incanto di un mondo nuovo, fresco, fecondo. Da quando varca la porta di quella casa in Sicilia - una Sicilia turgida e fosca, molto lontana dall'iconografia tradizionale - nulla è più come prima. Cambiano i posti e i nomi delle cose, il loro accento. Cambia lo sguardo dei protagonisti, mentre la crepa fra loro si allarga, diventa una voragine di carnalità e mistero che inghiotte ogni cosa. Anche il lettore, che non è più spettatore, ma coprotagonista, chiamato a prendere una posizione. «Perché L'indecenza - dice Elvira Seminara - mette in scena lo scandalo della solitudine. E quel pozzo oscuro di ambiguità e paura in cui si specchia, danzando sul bordo, il nostro presente».

 
Le fa eco Gianpiero Borgia: «L’indecenza - osserva nelle note di regia - è ciò che non esplode e si muove appena sotto la linea della coscienza. Mi interessava insistere registicamente su uno specifico: l’ambiguità dell’indecenza nel subconscio di ognuno, che è anche ambiguità dei fatti che accadono nella vita di ognuno. Ho voluto portare il pubblico in una dimensione voyeristica, che non avremmo potuto ottenere in un teatro e meno che mai su un palcoscenico. Per questo ci siamo spostati nei locali della Scuola d’Arte drammatica del Teatro Stabile di Catania. Lì possiamo nascondere gli spettatori dietro le pareti o il mobilio di una casa, dietro muri così sottili che è impossibile non spiare e dove il percepito è tanto intrigante per la propria immaginazione, quanto ambiguo nel suo effettivo attuarsi».
 

lunedì 16 marzo 2015

Evento al MacS di Catania che inaugura la 'Collezione MacS. Sezione Internazionale'


 

Vernissage domenica 29 marzo 2015

 

Domenica 29 marzo 2015, alle ore 19, al MacS (Museo Arte Contemporanea Sicilia) nella Badia piccola del  Monastero di San Benedetto di via Crociferi, a Catania, si terrà, il vernissage della Collezione MacS- Sezione internazionale.  

Interverranno: il Direttore del MacS, Giuseppina Napoli, il prof. Adriano Pricoco (Accademia di Belle Arti Catania).

Protagoniste le opere (dipinti, sculture e fotografie) degli artisti: James Xavier Barbour, Lita Cabellut, Marcia Gálvez Camus, Marta Czok, Thomas Dodd, Enrique Donoso, Lorenzo Manuel Durán, Jorge Egea, Daria Endresen, Fernando Fraga, Steven Kenny, Wenceslao Jiménez Molina, Zheng Lai Ming, Ryan Mendoza, Nihil, Judith Peck, José Manuel Martínez Pérez, Mario Andres Robinson, Carlos Asensio Sanagustín, Richard Scott, Miguel Escobar Uribe, Santiago Ydanez, Gary Weismann.

 
Giuseppina Napoli (Direttore MacS) - “Stiamo vivendo indubbiamente un momento storico particolarmente difficile e drammatico. Assistiamo proprio in questi giorni a terribili aggressioni alla cultura e alla civiltà, immagini orrende di morte, distruzioni di opere d'arte e di reperti storici si susseguono sui media. Guerre ideologiche e sanguinarie minacciano l'Europa, il Medio Oriente brucia. Il mondo intero arranca stremato da una lunga crisi globale. Inaugurare l'inizio della costruzione della collezione MacS, dedicandone la prima sezione all'arte contemporanea internazionale, è il nostro piccolo contributo alla pace e alla solidarietà mondiale. Il visitatore comprenderà che questo primo segmento museale è parte di un più vasto progetto culturale, progetto che propone il continuo dialogo, tra presente e passato, tra la Sicilia e il mondo. Questo segmento della sezione internazionale è il primo sguardo sui fermenti dell'arte figurata del nostro tempo e nel mondo. Da Santiago del Cile a Berlino, da Barcellona a New York. Visioni, denunce, poesie, speranze, paure. Artisti affermati, giovanissimi emergenti. Una grande estensione geografica di artisti e di scuole. Si avverte ovviamente il limite di una collezione che è stata costruita in poco meno di un anno. La rappresentatività degli artisti e dei movimenti è quindi ragionevolmente parziale, così come pure il limite degli spazi museali che presto andranno ad ampliarsi. Difficoltà e limiti che non fanno che sottolineare il grande impegno e la forte volontà del museo MacS di partecipare e contribuire alla promozione dell’arte del nostro tempo. Un ringraziamento davvero speciale agli artisti che hanno reso possibile, in così breve tempo, la realizzazione di questa straordinaria sezione internazionale; il loro contribuito al progetto è stato determinante, con le loro opere hanno voluto onorare questo luogo di indicibile bellezza. Agli artisti, ad ognuno di loro, la nostra sincera gratitudine”.

 


 

Adriano Pricoco (Accademia di Belle Arti Catania) - “L'avvento del digitale, ha sancito la fine della verità a favore del realismo. Nella fase storica in cui ogni processo creativo viene medializzato per esistere, sembra non esserci più posto per le forme di rappresentazione che hanno accompagnato lo sviluppo artistico delle civiltà umane. Tutto sembra essersi trasformato, quanto meno nelle dinamiche di percezione che ne abbiamo. Se dovendo immaginare un percorso evolutivo dell'arte bisogna risalire al primo uomo che lascia (imprime) una impronta della sua mano all'interno di una caverna, la prima vera rivoluzione in termini artistici avviene nella naturale evoluzione del segno che comincia a divenire rappresentazione, evocando (o invocando) le prime sublimazioni spirituali. La successiva e già quasi definitiva rivoluzione interviene e coincide con la conquista della terza dimensione e la relativa acquisizione conseguente dello spazio, che da scultura non tarderà ad evolversi ulteriormente in architettura. Oggi viviamo nell'egemonia delle immagini; del resto se la differenza sostanziale fra logos e imago sta nella natura regionalistica della prima: se dico (o scrivo ndr) sedia, condivido il senso associativo soltanto con chi usa il medesimo idioma; la sua natura appunto idiomatica è anche il suo limite. L'immagine di una sedia, al contrario è condivisa universalmente in qualsiasi angolo del pianeta e quasi in qualsiasi epoca. Uno degli effetti dell'avvento del digitale, è stato quello di restituire nuova dignità a forme di rappresentazione che nell'arco del XX secolo sembrava quasi fossero state progressivamente abbandonate; non per decadenza oggettiva, bensì per la progressiva smaterializzazione che è derivativa dalla definizione intervenuta nell'arte dopo l'esperienza delle Avanguardie del dopoguerra. Forse già con la nascita della fotografia nel XIX secolo si erano registrate le prime forme di indebolimento della pittura, la preminenza di quest'ultima sul ritratto, che ne ha connotato anche la storia, viene messa in discussione dalla fotografia. Persino l'invenzione del cinematografo e la sua evoluzione in immagini continue ha determinato un conflitto apparente con la tradizione della pittura. Come affermò Wim Wenders in un'intervista nel 1975 “...il cinema è cominciato come una faccenda puramente fenomenologica. Chi ha inventato le prime macchine da presa, quando riprendeva le cose, era interessato solo alla loro rappresentazione. Tutte le altre idee del cinema si sono sviluppate in seguito. Al principio non c'era altro che la pura e semplice rappresentazione della realtà...” ed è proprio questo il limite che ha denotato la fotografia e successivamente il cinema: l'impossibilità di tenere il passo con la natura immaginifica della pittura. È altrettanto vero che lo sviluppo delle tecnologie legate all'immagine nell'arco del Novecento, aveva minato la credibilità della pittura; già Walter Benjamin aveva teorizzato che la riproducibilità tecnologica avrebbe segnato una rivoluzione nell'arte; il cinema stesso nella sua progressiva definizione aveva sancito una democratizzazione delle arti, creando relazioni fra discipline fin lì spesso divise a compartimenti stagni, ma è apparso altrettanto palese che nella sua evoluzione avrebbe restituito nuova dignità all'idea di rappresentazione figurativa. La figurazione appunto, che sembrava esser stata resa obsoleta dall'astrattismo nell'arco nel XX secolo, è stato costante oggetto di riscoperta e rivalutazione. Paradossalmente è stato proprio lo sviluppo delle tecnologie digitali di rappresentazione ad aver dato nuova linfa vitale alla figurazione. Il confine fra fotografia e pittura nell'epoca di software quali Photoshop si è talmente assottigliato da essere quasi impercettibile. E la pittura? Cosa ne è stato della pittura, del suo esercizio procedurale e metodologico? Si sono forse estinti? Naturalmente no. Convivono come forma sinergica alla mappatura del mondo che le immagini di natura digitale aspirano ineluttabilmente a compiere senza però riuscire ancora nell'intento. In una società dominata dall'immagine, l'arte richiede sempre più un'aura a protezione del suo carattere fragile. Abbiamo assistito ad una radicale trasformazione dell'atteggiamento fruitivo dell'opera: se alla fine dell'Ottocento le forme di rappresentazione artistica si avvalevano di codici multipli che consentivano una chiave di lettura del fruitore attraverso le dinamiche di racconto, di istanze basate su regole proporzionali, di valori cromatici e modelli tratti dalla natura, con le Avanguardie si è formulato un approccio costruito su codici singoli e specialistici. L'effetto è stato una ripartizione per categorie di fruitori. Ed è stato proprio il cinema a raccogliere l'eredità dei codici multipli divenendo la forma artistica di rappresentazione più popolare. Ma il cinema non è sufficiente a compensare la perdita di aura intervenuta nell'opera d'arte nell'arco del Novecento.  La figurazione non è mai stata appannaggio di una unica disciplina espressiva, anzi ha avuto la capacità di rinnovarsi adeguando le proprie istanze all'evoluzione dei mezzi espressivi, generando nuove dinamiche e significati. Le immagini nella loro accezione generica che hanno assunto ed a cui ascriviamo tutto lo scibile contemporaneo hanno depauperato il significato a favore del significante. L'origine di questo depauperamento di senso va cercato nel cortocircuito che la diffusione massiva che le immagini hanno nel nostro contemporaneo, la ridondanza delle (e nelle) immagini è solo uno degli effetti collaterali con cui dobbiamo fare i conti. L'intento di affrancarsi dalla tradizione si è rivelato demagogico in tutti gli ambiti disciplinari dell'arte. Se il contemporaneo si offre a noi come un confuso disorientamento esistenziale è anche per via della retorica che abbiamo edificato intorno alle immagini. Forse anche a questo servono le collezioni pubbliche di Arte; riedificare il senso più nobile di Cultura come reale prospettiva di crescita ed emancipazione. La collezione che il MacS presenta è da ritenersi un patrimonio a lungo termine per un territorio che vanta una esemplare vitalità artistica. È inoltre una risorsa culturale volta a crescere progressivamente nel tempo. Il consumo culturale in una città come Catania è destinato a crescere esponenzialmente”.

 
  

Collezione MacS.

Sezione Internazionale

Macs – Museo Arte Contemporanea Sicilia

via Crociferi – via S. Francesco n. 30, Catania

Autori: James Xavier Barbour, Lita Cabellut, Marcia Gálvez Camus, Marta Czok, Thomas Dodd, Enrique Donoso, Lorenzo Manuel Durán, Jorge Egea, Daria Endresen, Fernando Fraga, Steven Kenny, Wenceslao Jiménez Molina, Zheng Lai Ming, Ryan Mendoza, Nihil, Judith Peck, José Manuel Martínez Pérez, Mario Andres Robinson, Carlos Asensio Sanagustín, Richard Scott, Miguel Escobar Uribe, Santiago Ydanez, Gary Weismann.

 

Sede: MacS – Museo Arte Contemporanea Sicilia

Indirizzo: via Crociferi – via S. Francesco n. 30, Catania

Telefono: 095 715 2207 - 342 301 7376

Orari: invernale (in vigore dal 1° Ottobre) h 9.00 – 18.00; estivo (in vigore dal 1° Aprile) h 10.00 – 19.00 (Chiuso il Giovedì).

Ingresso: € 5,00 (biglietto unico) – € 3,50 (biglietto ridotto)

Ufficio Stampa:  ufficiostampa@museomacs.it

www.museomacs.it - info@museomacs.it

 

 
 

mercoledì 4 marzo 2015

“Some Girl(s)”: si è mai pronti al matrimonio?

 
 
Se un dongiovanni (quasi) pentito, alla vigilia delle nozze, decidesse di partire per incontrare le precedenti fidanzate piantate in asso? E se rimuginasse sul suo gioco bugiardo e vigliacco degli ultimi, giovanili e ambiziosi anni? “Sei pronto per il giorno più bello della tua vita?” recita, non a caso, l’ironico sottotitolo di “Some Girl(s)”, una commedia intrigante e acuta, prodotta dal Teatro Bellini di Napoli e nata dalla penna del contemporaneo Neil LaBute, uno degli autori americani più acclamati della generazione post-Mamet.

Ospite del Teatro Stabile di Catania per il cartellone innovativo “L’isola del teatro”, ideato dal direttore Giuseppe Di Pasquale, la pièce andrà in scena alla sala Musco dal 5 all’8 marzo, con l’arguta quanto efficace regia di Marcello Cotugno, coadiuvato dalle scene di Luigi Ferrigno e dai costumi di Annapaola Brancia D’Apricena.

Il goffo protagonista maschile si chiama Guy ed è interpretato da Gabriele Russo, che interagirà sul palco con alcune ragazze evocate dal titolo anglofono: si tratta di quattro diverse donne impersonate, in ordine alfabetico, da Martina Galletta, Bianca Nappi, Roberta Spagnuolo e Guia Zapponi, mentre una quinta agirà attraverso un insolito contenuto extra.

«La messinscena- anticipa il regista- si contamina con una multimedialità che supera i confini teatrali: grazie a un link gli spettatori avranno la possibilità di assistere a un quinto episodio della storia che, visibile solo online, li condurrà ancora più in profondità in quest’indagine sulle complessità delle relazioni uomodonna».

Guy è, infatti, un giovane uomo, insegnante e aspirante scrittore, che prima di sposarsi decide di fare un viaggio à rebours nella propria vita, mettendosi in cerca delle proprie ex per provare - in un paradossale tentativo di espiare gli errori delle vite precedenti - a sistemare, come dice lo stesso autore, "il casino che ha combinato nella sua vita sentimentale lungo la strada verso la propria maturità". Ne emerge il tragicomico ritratto, in bilico tra Rohmer e Voltaire, di un uomo-bambino: un “adultescente” che barcolla tra paura di impegnarsi, senso di colpa e una spietata ambizione che lo spinge, un po' per cinismo un po' per incoscienza, a consumare e manipolare le donne della sua vita. Simpaticamente sconfitto su tutti i fronti, alla fine sarà capace di rialzarsi, nonostante i lividi, senza pensarci troppo su. E con la stessa leggerezza, o superficialità di sempre, ricomincerà a macinare la propria vita tra un danno e un altro.

Via via, ci si inoltrerà in una serie di interrogativi spiazzanti, che accresceranno il pathos della vicenda: «Guy - si chiede il regista - è un uomo bambino o è anche lui un naufrago alla deriva nella liquidità dell'amore? Sam sarà una ragazza abbandonata o una provinciale inghiottita dalle sue stesse aspettative piccolo borghesi? Tyler ha fatto dell'indipendenza un motivo d'orgoglio e della seduzione un'arma, oppure è una donna fragile che teme di abbandonarsi alla speranza? Lindsay è affamata di vendetta o è semplicemente scissa tra noia e perversioni intellettuali? E chi è in realtà Bobbi? Una donna emancipata dalla trappola delle relazioni o è anche lei in cerca della sua parte di rivalsa? E infine Reggie (la quinta donna presente nell'extra online) non è altro che una ragazzina curiosa o è la nemesi che finalmente si abbatte sull'uomo?»

La regia esalta, nella sua direzione minimale, queste ambiguità, facendo perno sulle capacità interpretative degli attori. «Tutto confluisce- continua Cotugno- nell’idea di un teatro indie-pop: un teatro che, con la stessa capacità di intercettare tensioni e passioni che ha la più illuminata musica contemporanea, ingaggi lo spettatore in un processo di identificazione non rassicurante, in una riflessione sulla liquidità delle esistenze e dei legami, in una condivisione profonda delle emozioni. Un rito di catarsi collettiva che, senza esaurirsi nel tempo della messa in scena, lascia delle domande aperte che accompagnano il pubblico fuori dalla sala».

D'altra parte “Some Girl(s)” è dedicato a Eric Rohmer, uno dei padri della Nouvelle Vague e, come nel suo cinema, la recitazione ha il registro di un naturalismo quasi documentario. Luci e scenografia contrastano con il realismo che suggerirebbe la scena (una stanza d'albergo sempre più o meno uguale) e sconfinano nel terreno di un teatro simbolista à la Maeterlinck. Le musiche accompagnano, senza mai sottolinearne gli eventi, questa commedia brillante ma allo stesso tempo amara, spaziando dalle tristi note di Karen Dalton al tema della serie TV Utopia di Cristobal Tapia de Veer, dalle note del piano di Nils Frahm al country malinconico di Conor Oberst e Gillian Welch.

 


Peter Stein rilegge “Il ritorno a casa” di Harold Pinter

 
 
Abisso animalesco o fonte di tenerezza? Legami ipocriti ed incancreniti o catene d’affetto e di dolcezza? Cos’è in realtà la famiglia? Si pone questi interrogativi “Il ritorno a casa”, dramma, caustico e feroce, del geniale drammaturgo inglese Harold Pinter, premio Nobel per la Letteratura nel 2005.

Ospite del Teatro Stabile di Catania, diretto da Giuseppe Dipasquale, lo spettacolo è proposto nella versione del regista tedesco Peter Stein, maestro del panorama teatrale europeo, che sceglie il suo cast di qualità da un altro suo capolavoro, “I Demoni”, maratona scenica durata dodici ore. Si tratta di Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Antonio Tintis e Andrea Nicolini, a cui si è aggiunta l’unica donna, Arianna Scommegna.

Proposto nella traduzione di Alessandra Serra, la pièce sarà sul palco alla sala Verga, dal 4 all’8 marzo, ed è frutto di un’efficace coproduzione, realizzata tra il Teatro Metastasio Stabile della Toscana e “Spoleto56 Festival dei 2Mondi”. La scenografia è firmata da Ferdinand Woegerbauer, i costumi da Anna Maria Heinreich, le luci da Roberto Innocenti.

Fattore scatenante di tanta aggressività compulsiva sarà il ritorno a casa, dopo anni di lontananza, di Teddy, un figlio diventato docente universitario in Usa, portando con sé la moglie Ruth, unico elemento femminile in un universo di soli uomini, formato dal padre e dei fratelli di lui.

L’arrivo avrà effetti sconvolgenti e per certi versi inaspettati: accolta come elemento estraneo verso cui sfogare la propria misoginia, Ruth viene accettata e inserita in un gioco al massacro in cui appare allo stesso tempo come vittima e carnefice: sarà il marito Teddy ad andarsene da solo. L’immagine finale mostra la donna imponente, con gli uomini frignanti e anelanti ai suoi piedi e nessuno sulla scena e nell’uditorio saprà quello che può accadere. Come sempre nei finali di Pinter tutto rimane aperto…

Scritto nel 1964, “Il ritorno a casa” è uno dei primi testi della maturità artistica dell’autore inglese, che aveva già creato capolavori del teatro dell’assurdo. Praticamente quasi un traguardo per Peter Stein che racconta: «Sin da quando ho visto la prima londinese, quasi 50 anni fa, ho desiderato mettere in scena “Il ritorno a casa”. È forse il lavoro più cupo di Pinter, che tratta dei profondi pericoli insiti nelle relazioni umane e soprattutto nel rapporto precario tra i sessi. La giungla nella quale si combatte è, naturalmente, la famiglia. I comportamenti formali, più o meno stabili si tramutano in aggressività fatale e violenza sessuale. Tutte le ossessioni maschili in questa famiglia di serpenti si proiettano sull’unica donna presente. Nelle fantasie degli uomini, e nel loro comportamento, viene trasformata in puttana e non le rimane che la possibilità della vendetta, assumendo quel ruolo e soddisfacendo la loro bramosia più del previsto. La famiglia comporta logiche dei quali non si discute, non si può discutere, perché i rapporti contemplano aspetti naturali ma quasi “animaleschi”, dei quali è difficile anche solo parlare...»

Pinter, tra i più complessi e originali scrittori teatrali della sua generazione, nelle sue opere ricerca situazioni psicologiche che hanno come temi la coesistenza nella medesima persona di violenza e sensibilità, o il mistero dell’animo femminile. Sono lavori in cui l’intreccio è talvolta quasi assente e lo svolgimento è affidato al dialogo, con cui egli sa creare intense atmosfere. “Nelle sue commedie scopre il baratro che sta sotto i discorsi di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione” è, infatti, e non a caso, la motivazione con cui gli venne assegnato dall’Accademia di Svezia il premio più ambito.

«L’iniziativa di questo allestimento è partita dai membri del cast de "I Demoni" che era abituato ad un lavoro di stretta interazione - continua a rivelare il regista- Durante il dramma si scorge che il malessere reciproco dei protagonisti li fa soffrire tutti, ma nello stesso tempo è ciò che li tiene uniti, insieme. L’elemento davvero conclusivo, l’uscita drammatica da quel groviglio, è solo in quella vistosa abdicazione dei maschi rispetto all’unica donna. D’altra parte, anche se pieni di caratteri insopportabili, quei personaggi sono nello stesso tempo anche commoventi. Penso proprio che Pinter abbia preso questa caratteristica da Cechov: anche lì i personaggi sono sempre degli illusi e velleitari, quasi patetici, ma è impossibile non commuoversi per loro, e per i loro irrealizzabili desideri».